Ciò che accadde nel 1861 realizzava il sogno secolare di poeti, politici e intellettuali. LItalia «una darme, di lingua, daltare, di memorie, di sangue e di cor», invocata da Alessandro Manzoni, non era più unastrazione. Ma in che modi e con che spirito fu compiuta limpresa? Quali tragedie e ingiustizie la accompagnarono?
Realizzata dalla classe dirigente piemontese grazie soprattutto allabilità diplomatica di Cavour e al temperamento incendiario di Garibaldi, lUnità integrava davvero identità, culture, tradizioni, persino lingue diverse? Oppure si raggiungeva soltanto lunità politica? «Si è fatta lItalia, ma non si fanno gli Italiani», recitava la celebre sentenza di Massimo dAzeglio, con retorica sufficiente a velare unintenzione che non cera - almeno non in tutta la classe dirigente - e non ci sarebbe stata. Lo stesso dAzeglio scrisse, in una lettera privata: «La fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso».
Una parte del nuovo Stato era già «italiana», laltra non lo era affatto.
Occorreva dunque educarla a essere diversa da sé, a costo di snaturarla. Ai primi segni di insofferenza del Sud, nacque subito una contrapposizione rancorosa: «noi» contro «loro». «Noi», i civilizzatori; «loro», i brutali indigeni. «Noi», i portatori di giustizia e legalità; «loro», i briganti. A dividere gli uni e gli altri, cera una diversità radicale e radicata, non uninconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a unestraneità, che si finì per aggravare. La storia - a partire dalla Rivoluzione francese - aveva insegnato che, appena si annunciano grandi cambiamenti, dal cuore antico di masse amorfe e analfabete prorompe lanimus di unopposizione sanguinaria.
Per sminuirne la portata, tale opposizione veniva svilita - dagli intellettuali, dai politici e dallopinione pubblica - a una viscerale manifestazione di rancori e pulsioni irrazionali. Si trattava, invece, di una resistenza ideologica e politica, oltre che sociale. Ma, per liquidarla, i maestri della Rivoluzione francese avevano già capito che il segreto stava nellaccomunare la rivolta al delitto comune. Anche in Italia la ribellione - di reazionari, contadini e clericali - contro lo Stato appena costituito fu etichettata «brigantaggio». Al Sud cerano banditi veri, criminali comuni, prima, durante e dopo lUnità. A questi delinquenti vennero equiparati i «briganti», come vennero chiamati i meridionali in lotta per scacciare gli «stranieri» che sbandieravano una fratellanza forzata; dallaltra parte non cerano parenti, affini, connazionali, bensì un popolo nemico, un invasore brutale e arrogante, venuto da lontano. Nessuna solidarietà, nessuna vicinanza, né culturale, né umana, né politica: i briganti non si sentivano «italiani».
I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze. Due mondi erano in conflitto tra loro. Perché luno venisse a patti con laltro occorreva che il vincitore riconoscesse le differenze e cercasse di cancellarle realizzando una maggiore giustizia sociale. Si preferì lazione repressiva, determinata a stroncare, soffocare, estirpare. Una logica che alimentò se stessa: la violenza ne generò altra, sempre più crudele. Ufficiali e soldati italiani si sentirono avamposti in pericolo, esploratori in una terra popolata da una razza diversa, percepita come inferiore .
Con la legge Pica, dellagosto 1863, il governo italiano - in pieno accordo con il Parlamento - impose lo stato dassedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri. Mentre accadeva tutto questo, cera chi vedeva dietro il brigantaggio lintervento del Papa, chi la longa manus borbonica, e in parte avevano ragione. Ma ne aveva di più chi suggeriva, inascoltato, che la causa principale andasse ricercata nelle oggettive condizioni di minorità sociale e di miseria della plebe meridionale. La verità su cui al Nord tutti concordavano è che, appena nata, lItalia era già madre di due figli diversi: uno di cui andare fieri, laltro bisognoso di severe lezioni.
Per gli uomini dei Savoia, i briganti erano lemblema di quel figliastro malato e depresso, geneticamente tarato. Ma non basta lapproccio razzistico a spiegare latteggiamento tenuto nei suoi confronti, cè dellaltro: potremmo chiamarla la sindrome del «chi ce lha fatto fare?». Si spiegano così prima la spietatezza della repressione, poi ladozione di una politica economica e sociale del tutto inadeguata ai problemi del Mezzogiorno; più tardi la perseveranza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di parassitismo. Il brigantaggio rappresentava il segnale dallarme di un guasto grave, e non solo per lordine pubblico. Il modo in cui fu combattuto sviluppò quella che sarebbe diventata la «delinquenza organizzata», e accrebbe a dismisura la gravità di una questione meridionale destinata a incancrenire la vita politica del Paese perpetuando la contrapposizione Nord-Sud.
I contadini saliti sui monti furono - con le sole armi che avevano a disposizione, la disobbedienza e il banditismo - i ribelli di una storia che li aveva ignorati, di un processo che aveva sancito la rimozione della loro cultura e della loro tradizione. Furono la spina nel fianco del potere, almeno per cinque lunghissimi anni. Saranno sconfitti, ma grazie alla loro rivolta, si rafforzò la sensazione che la terra abitata da quel popolo sarebbe stata la «palla al piede» della nazione. «Ci avete voluti, imponendoci la vostra volontà: ora pagate le conseguenze». Ecco cosa sembrava dire il Sud al conquistatore. Tutto ciò rivela gli errori e le colpe di una classe dirigente a cui dobbiamo riconoscere i meriti storici di avere realizzato un processo unitario non più rinviabile. Allo stesso tempo, i padri della patria devono essere giudicati anche sui piedistalli dove, intangibili, li ha collocati la retorica di un Risorgimento popolato solo da piccole vedette lombarde, tamburini sardi e giganti del patriottismo. È una retorica che vuole il nostro Risorgimento fatto solo di eroi, di martiri, di Bene opposto al Male. È una storia alla quale tuttora manca una profonda opera di revisione storiografica .
Perciò il brigantaggio postunitario è stato, lungo il secolo e mezzo di storia nazionale, poco più di una parentesi della quale si sono perse le tracce, quasi un incubo da rimuovere e censurare, una pagina vuota, una tragedia senza narrazione. I briganti scontano, oltre alla sconfitta, anche il destino della damnatio memoriae. A loro, non spetta lonore delle armi. Gli sconfitti sono scomparsi nella zona dombra in cui li ha relegati la cattiva coscienza dei padri della patria. Una guerra in-civile come quella andava dimenticata, rimossa o almeno ridimensionata alla stregua di una semplice, per quanto sanguinaria, operazione di polizia. Cè solo da sperare che, con le prossime celebrazioni dei 150 anni di Unità nazionale, si rinunci almeno in parte al conformismo retorico e patriottardo: aggettivo molto diverso da «patriottico».
*Pubblichiamo lintroduzione del libro di Giordano Bruno Guerri Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio 1860-70 (Mondadori, pagg. 302, euro 20) in uscita martedì prossimo. Un saggio anti-retorico che diventa unoccasione - in questo 150º anniversario dellUnità dItalia - per sfatare molti luoghi comuni che orientano il nostro giudizio sul Risorgimento.
Nessun commento:
Posta un commento