17 lug 2012

La Nato stravolta: da organismo di difesa ad arma d'attacco *

* di Massimo Fini:

Nei giorni scorsi c’è stato un grave incidente ai confini fra Siria e Turchia. Un F4 turco è stato abbattuto dalla contraerea siriana. Il governo di Ankara ha affermato che l’aereo non era armato, si trovava nella zona per sperimentare un nuovo radar, che volava nello spazio aereo internazionale anche se poi è caduto in territorio siriano. Damasco dà una versione opposta: l’aereo volava nello spazio aereo siriano ed era in funzione ricognitiva per conto della Nato. Versione che appare più credibile; se si vuol provare un radar non lo si va a fare ai margini del bollente confine della Siria, dove è in atto una sanguinosa guerra civile.

La Turchia ha chiesto l’appoggio della Nato ed Erdogan ha affermato "colpiremo la Siria se attaccati ancora". Il segretario generale della Nato, Rasmussen, ha assicurato il suo pieno appoggio ad Ankara l’articolo 4 del Trattato dell’Alleanza Atlantica che impone ai 28 Paesi membri di venire in soccorso di uno Stato che di questa Alleanza faccia parte, se attaccato o anche solo minacciato. Il che è ineccepibile. Ma proprio il riferimento all’articolo 4 ci ricorda che la Nato è nata come alleanza puramente difensiva (se uno dei suoi Paesi è attaccato gli altri hanno il dovere di correre in suo soccorso) ma che nel corso degli ultimi anni, senza che il suo Statuto sia stato cambiato e senza che gli Stati Uniti, che di questa alleanza sono il dominus se non i padroni, sentissero l’obbligo di consultare gli altri Stati membri, si è trasformata in uno strumento offensivo. La vittoria dei serbi nella guerra di Bosnia nei primi anni ’90 non minacciava alcun Paese dell’Alleanza eppure la Nato è intervenuta trasformando i vincitori in vinti. Ancor meno minacciosa era la Serbia di Milosevic che alla fine degli anni ’90 si trovava alle prese con un grave problema interno dal quale nessun Paese dell’Alleanza veniva minacciato. Eppure una grande capitale europea come Belgrado fu bombardata dalla Nato per 72 giorni. Lo stesso si può dire per l’attacco all’Iraq del 2003 (quale Paese Nato minacciava Saddam Hussein?) e per quello alla Libia del 2011 (Gheddafi era addirittura alleato di alcuni Paesi membri della Nato, fra cui l’Italia). E anche per l’Afghanistan, perché se all’inizio l’attacco a questo Paese poteva essere visto come un atto di difesa contro il terrorismo internazionale, oggi, dopo undici anni di occupazione, quella giustificazione non regge più.

Quella trasformazione, mai esplicitata, mai sancita da un cambiamento legalizzato della natura dell’Alleanza, da strumento di difesa a mezzo di offesa, ha costretto molti Paesi a calpestare disinvoltamente la propria Costituzione. Fra cui c’è quella italiana che all’articolo II afferma solennemente: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E invece siamo implicati in pieno in guerre d’offesa volute da altri e la scorsa settimana la morte del 51mo soldato italiano caduto in Afghanistan in diversi giornali è finita a fondo pagina mischiata alle notizie sui problemi dei sedicenni e sulla tutela dei cani abbandonati d’estate.

Un po’ perché ci abbiamo ormai fatto l’abitudine e molto perché ci vergogniamo di mandare questi ragazzi a farsi ammazzare e ad ammazzare senza che si possa dire, senza incorrere in un tragico ridicolo, che stan difendendo la sicurezza della Patria e nemmeno quella di un Paese alleato.

Nessun commento: