28 lug 2010

A quel di Regio 40 anni fà ... *


* tratto da

di Francesco Gerace

Quarant'anni fa, la rivolta di Reggio Calabria. Una città in guerra per il capoluogo di Regione, assegnato invece a Catanzaro. Una guerra vera, con 5 morti e duemila feriti, oltre 800 arresti, danni per miliardi di lire dell'epoca. I reggini devastarono la loro città; ingaggiarono scontri furiosi con le forze dell'ordine; ruppero il legame che li univa ai maggiori partiti e sindacati e scelsero nuove forme di rappresentanza.

A Reggio durante i moti furono chiusi negozi e uffici; bloccati porti, aeroporto, ferrovie e autostrada; interrotti gli esami a scuola, ferme poste e banche, e pure l'Inps. Fu una rivolta di popolo, scesero in piazza facinorosi, ma anche ragazzi e vecchi, ed è ancora vivo il ricordo delle anziane vestite di nero e delle massaie muoversi fra le barricate come esperte rivoluzionarie. La rivolta nacque dalla rivendicazione di un pennacchio (il capoluogo di Regione, appunto) ma aveva un concreto risvolto economico e politico per una città fino a quel momento tagliata fuori dallo sviluppo degli anni del boom, e che ora correva il rischio di perdere anche il treno della Regione che, detto in altre parole, significava qualche migliaio di nuovi posti di lavoro pubblici, apertura di sedi e uffici per gli assessorati, indotto amministrativo e commerciale, e prestigio.

Reggio fu sottosopra per 8 mesi, durante i quali successero cose inimmaginabili: fu assaltata e incendiata la questura, dentro alla quale c'erano centinaia di agenti. Un'autocolonna di militari fu attaccata da due commandos con le molotov lungo l'autostrada. Infine, dovettero intervenire i carri armati per sgombrare le barricate. Fu un tempo di delirio e violenza, con la politica nel pallone. I partiti di governo (Dc, Psi e Pri) e il Pci bollarono sbrigativamente la rivolta come fascista; Cgil, Cisl e Uil si schierarono contro gli scioperi. La tv di stato per giorni non riferì della protesta. Ma la rivolta al grido di 'boia chi molla' andò avanti, partiti e sindacati furono scavalcati e sconfessati dai loro stessi militanti, e lo sciopero generale a oltranza fu proclamato da un improvvisato 'comitato d'azioné guidato dall'ignoto sindacalista della Cisnal Ciccio Franco, dall'ex comandante partigiano Alfredo Perna e dall'industriale del Caffé Demetrio Mauro.

La destra politica, fino a quel momento distratta, prese la guida dei moti, e la folla in piazza incendiava i fantocci col viso di Riccardo Misasi e Giacomo Mancini, pezzi da novanta di Dc e Psi, entrambi cosentini, ritenuti le menti dello scippo. La debolezza della politica mise in difficoltà anche il sindaco Piero Battaglia, dc molto amato e vero leader, che per mesi aveva messo in guardia il governo da scelte penalizzanti per Reggio. La confusione del quadro politico era enorme in quei mesi e, di fronte all'ordine pubblico ingestibile, a Roma prevalse la logica della mano pesante. Si rischiarono perfino le dimissioni del Presidente della Repubblica Saragat che, come ha rivelato il giornalista Rai Domenico Nunnari in una ricostruzione di quegli anni, nonostante tutto, non aveva ostilità e pregiudizi verso la rivolta, il vecchio Presidente aveva intuito che in quei moti c'erano le inquietudini vere di una terra che si sentiva emarginata e umiliata, altro che golpe fascista.

Le proteste e le barricate finirono nel febbraio 1971 quando il governo di Emilio Colombo tirò fuori dal cilindro una sorta di cencelli in versione Calabria, assegnando capoluogo e Giunta a Catanzaro; Assemblea a Reggio; Università a Cosenza. Per placare l'ira reggina fu promesso di costruire un centro siderurgico a Gioia Tauro (50 km da Reggio) e uno stabilimento Liquichimica a Saline (alle porte di Reggio) per 10mila nuovi posti di lavoro. Colombo la spuntò. Non era ciò per cui i reggini si erano battuti, ma la gente era stanca, voleva tornare alla normalità. E poi la promessa di tanti posti di lavoro, davvero tanti, non poteva cadere nel vuoto. La lotta per il capoluogo almeno sortiva qualche occupato in più. Insomma, la città ne usciva sconfitta, ma con onore. D'altra parte non poteva che finire così, dopo 8 mesi di assedio, e con l'inquietante immagine dei carri armati sul lungomare della città.

Ma la grande beffa era in agguato: lo sdoppiamento delle sedi regionali diventerà presto causa di enormi sprechi di denaro per un consiglio regionale inutilmente itinerante; nella piana di Gioia verranno distrutti 1400 ettari di agrumeti, e raso al suolo il paese di Eranova per far posto al centro siderurgico, che però non sarà mai costruito; infine, la Liquichimica non entrerà mai in funzione. Insomma, zero nuovi posti di lavoro. A Gioia Tauro, solo molti anni dopo verrà costruito il porto, ma buona parte dell'area del fu impianto siderurgico è deserta ancora oggi. Intanto, una generazione di reggini ha fatto in tempo a perdere il treno dello sviluppo.

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