12 lug 2013

Luglio 1943. Lo sbarco e l'invasione ....

Fabrizio Carloni: Gela 1943.
 Le verità nascoste dello sbarco
 americano in Sicilia
,
 Mursia pagg. 182 euro 15
«Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Il sergente Horace West, processato negli Stati Uniti per aver svuotato a sangue freddo i caricatori del suo Thompson su 37 prigionieri italiani, si giustificò così di fronte al tribunale militare.
Operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia il 9 e 10 luglio di 70 anni fa: imbottiti di benzedrina per resistere alla fatica, furiosi per l’accanita resistenza che avevano incontrato, nonostante la superiorità schiacciante di mezzi e uomini, in diverse occasioni i fanti e i parà americani si lasciarono andare a violenze ed eccidi contro i prigionieri o la popolazione civile. In questo il sergente West – condannato, graziato e tornato in servizio come soldato semplice – in fondo era sincero. Il mitico generale Patton, celebrato da Hollywood, rivolgendosi ai suoi ufficiali alla vigilia dello sbarco in Sicilia aveva usato la famosa formula: «Kill, kill and kill some». Quanto al nemico, le istruzioni del generale erano chiare: «Se si arrendono quando tu sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero».
È il lato oscuro dell’invasione alleata della Sicilia, quando la più grande forza di sbarco che mai si fosse vista in Europa travolse le abborracciate difese costiere italiane. Ora i fantasmi di quei caduti ritrovano vita in diversi saggi appena usciti. E si riaprono i dossier. Come quello della strage dei Carabinieri a Passo di Piazza, raccontato nel libroGela 1943 di Fabrizio Carloni (Mursia). Dopo essere stati circondati dagli uomini dell’82esima “Airborne”, i Carabinieri cessarono il fuoco e si fecero catturare. Erano 13 o 14. «Furono allineati con le spalle al muro a tre-quattro metri dal muro della palazzina, rivolti ai nemici che li fronteggiavano armati di mitra; gli statunitensi erano sei o sette e ingiungevano di tenere le mani ben alte («Hands up, hands up!»)». Poi iniziarono a sparare con i mitra. «Il nostro testimone sosteneva che la fila intera si abbatté al suolo; tre o quattro dei camerati gli sembrarono, nei momenti successivi, morti; Quattro gli parvero, nella concitazione, feriti gravemente, di cui uno di Salerno, che piangeva, gli sembrò morente con ferita a cratere sulla spalla sinistra che perdeva sangue a fiotti». Cianci, il testimone sopravvissuto, simulò di essere stato colpito al petto e si salvò.
Ancora più grave la strage dei prigionieri che Andrea Augello racconta in Uccidi gli italiani e Domenico Anfora e Stefano Pepi descrivono inObiettivo Biscari(Mursia). Gli avieri italiani, aiutati da qualche elemento della “Goering”, si trincerano all’aeroporto di Biscari e ingaggiano quella che viene ricordata come la più dura battaglia della campagna siciliana. Al termine il tenente li raduna nell’ultimo avamposto: «Avieri, vi siete battuti bene». Ne restano vivi meno di 40. Si arrendono e vengono consegnati al sergente Horace West, che li dispone in fila lungo un fossato. L’aviere Giuseppe Giannola viene ferito a un braccio e alla testa. Ma la sua giornata gli riserva un’altra tragica sorpresa. Medicato da un’ambulanza militare, aspetta la sorte sul ciglio della strada: «È arrivata una Jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la Jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato il Garand, ha mirato al cuore e ha sparato». Eppure, miracolosamente, Giannola “resuscita” una seconda volta perché il proiettile non colpisce organi vitali. La battaglia di Biscari va ricordata anche per la morte di Luz Long, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Berlino del 1936 nel salto in lungo, alle spalle del leggendario atleta di colore statunitense Jesse Owens. Long e Owens divennero grandi amici, benché la guerra avesse separato i loro destini e spedito l’atleta tedesco fin nella sperduta Biscari a difendere con la sua batteria contraerea una pista di terra in Sicilia. L’ultima lettera che Long scrisse dal fronte fu proprio all’amico (nero e americano!) Jesse Owens: «Dove mi trovo sembra che non ci sia altro che sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e per il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli anche che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Luz». Su un altro episodio raccontato da Pepi e Anfora inObiettivo Biscari,ovvero l’uccisione del podestà di Acate Giuseppe Mangano, del figlio Valerio e del fratello Ernesto, la Procura militare di Napoli ha deciso di aprire un fascicolo d’inchiesta. Gli invasori-liberatori sono anche offuscati da pregiudizi etnici, basta leggere i dispacci “top secret” che Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino hanno raccolto inOperazione Husky(Castelvecchi). «Gli italiani – scrive il servizio segreto britannico – sono dei gran chiacchieroni, si lagnano di tutto e non fanno che disperarsi. ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, spunta sempre un pretesto per non agire». Non fu così in Sicilia, quando un esercito di “straccioni”, abbandonato dai generali e da Mussolini, tenne testa per 38 giorni alla grande armata alleata.
Il maggiore Victor Joppolo entrando per primo a Licata-Adano nel romanzo Una campana per Adanodi John Hersey (Castelvecchi, premio Pulitzer 1945) nota una donna morta in un vicolo, mutilata dalle bombe che hanno distrutto la città. «Che orrore. È terribile pensare che abbiamo dovuto far questo ai nostri amici». «Amici», risponde il sergente Borth al suo fianco, «questa è bella».


Dossier e saggi sull’invasione degli Alleati di 70 anni fa

di Francesco Bei Repubblica 8.7.13

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