30 mar 2010

McDonald's e pubblicità *


Roberto Luccioli
Tratto da 'Il Giornale del Ribelle'

L’oscena recente pubblicità propagandistica e paternalistica della coca-cola, lungi dal costituire un'eccezione, si inserisce invece in una strategia di più ampio respiro, giunta ora ad una nuova fase.
Infatti, lo strisciante colonialismo culturale americano, che dal dopoguerra ad oggi ha lentamente -con chirurgica precisione verrebbe da dire- operato una lobotomizzazione delle generazioni post-belliche, è ora giunto nella fase dell’accettazione di tale colonialismo come elemento normale e autoctono della cultura e dell’identità italiana.
Mentre dopo la guerra l’americanismo con tutti i suoi corollari (culto della “democrazia”, individualismo sfrenato, edonismo imperante, consumismo di massa, cibi spazzatura e via dicendo) era visto come una “novità”, in parte come un “esotismo” o una “terra di possibilità”, ormai la fase è quella successiva.
Ci si inserisce lentamente nel tessuto economico, culturale, valoriale, ideale, dei gusti, delle passioni e delle tendenze di un popolo, e se ne fa con calma tabula rasa dall’interno, cercando di cancellare ogni residuo di radici, tipicità, localismo, che possano essere d’intralcio al libero mercato, al commercio e all’american way of life.
Siamo cosi arrivati al punto che la Coca-cola non propone più all’utenza italiana un modello vincente a stelle e strisce da emulare, non più l’aitante americano o la famigliola felice WASP americana.
Ora la coca-cola è qualcosa di “nostro”, di “tradizionale”, come vagheggia la recente pubblicità ove, con sottofondo di voce di vecchio e saggio commentatore, si narra della commovente storia della madre italiana che, negli anni cinquanta, ebbe la “buona” idea, di portare, un bel dì, sulla tavola che fino ad allora aveva conosciuto vino e birra, o al massimo acqua, la “ricetta della felicità”, cioè la meravigliosa bevanda americana.
E da quel momento tutti poterono conquistare la felicità, godendosi la loro rinfrescante bibita, anche con un bel piatto di spaghetti o con un piatto di abbacchio, visto che è sotto i cieli di Roma che si svolge la vicenda dello spot. (Senza contare poi che la coca-cola ai pasti è una delle principali cause dell’obesità degli americani, e ormai anche degli italiani, dato che una lattina ha più o meno 130 kg/cal, che ci pare, sono decisamente tantine per una semplice bevanda...).
Sulla stessa falsariga è la nuova pubblicità del colosso dell’hamburger McDonald's, che ha recentemente lanciato sul mercato il “McItaly” cioè un hamburger con prodotti “d.o.c.” italiani, come formaggio Asiago e “deliziosa” crema di carciofi. Nella pubblicità un giovane dei nostri giorni, impegnato nella vita moderna (che richiede ritmi frenetici e pasti “al volo”, quindi ben vengano posti come McDonald), incontra in uno degli squallidi, uniformi ristoranti del gruppo, un anziano agricoltore che, guarda caso dopo aver coltivato lui stesso i prodotti genuini locali, si trova anche lui li per gustare la nuova commistione “italo-americana”.

Ma la cosa peggiore è che, al di sotto di tutta questa sordida propaganda che vuole mostrare come genuino e “italiano” qualcosa di bastardo e di senza tradizione, campeggia il patrocinio dello Stato italiano, nella persona del Ministero delle politiche agricole e forestali.
Ma come signori del governo? Voi, amanti instancabili della nostra bella Italia, del “made in Italy”, della bandiera e della patria, che ad ogni piè sospinto rivendicate il vostro amore per il Bel Paese (sole, cuore e sentimento), non trovate nulla da ridire a tutto ciò?
Passi pure la pubblicità della coca-cola -a cui a dire il vero un governo serio e soprattutto davvero “nazionale”, avrebbe vietato la trasmissione per “attentato alla salute pubblica”, visto l’invito a consumare il prodotto ai pasti; ma con tutto il buono, il bello, il locale, il tradizionale, lo “slow food” ecc. che abbiamo in Italia, andate ad apporre un “sigillo di garanzia” sulle operazioni di marketing dei colossi del colonialismo cultural-alimentare?
Quanti sono ormai i giovani che affollano i ristoranti della catena americana? Nella mia città, una piccola città di provincia, sono 4 solo i McDonald’s (più qualche Burger King qua e là). E sono sempre pieni. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Il segreto di cotanto successo? I prezzi bassissimi innanzitutto, ottenuti risparmiando non solo sul personale e sulle materie prime, ma anche con una formula franchising, che, facendosi forte del marchio e della pubblicità martellante che lo accompagna, riesce facilmente a soverchiare nel cuore dei giovani (ma anche dei meno giovani ormai) una piadina (vista la zona di chi scrive) ma anche i prodotti di un fornaio, che di certo hanno meno calorie, e ingredienti, se non genuini, quanto meno “locali”. Siamo arrivati addirittura ai gruppi di vecchi all’interno del McDonald's, che ivi consumano il caffè e le quattro parole che prima si scambiavano nei bar sport, italici simboli di aggregazione. Uno spettacolo desolante.
Le ragioni per opporsi alla “conquista silenziosa” sono molteplici: dalla salute, ai “diritti” dei lavoratori, alle materie utilizzate ecc.
Ma noi preferiamo insistere su un punto particolare: la sistematica cancellazione della nostra cultura e delle nostre radici locali, in questo caso gastronomiche, che è settore che può dire molto delle abitudini e della mentalità di un popolo.
Forse a qualcuno non preoccupa che, sotto qualsiasi cielo del globo, che sia Roma, Londra, Tokyo o Kuala Lumpur, si possa entrare in un ristorante identico, mangiare lo stesso identico panino, regalare ai propri figli gli stessi identici gadget e bere le stesse bibite ipercaloriche. Sentire gli stessi odori e sapori e sentirsi “a casa”, come il terrificante pagliaccio Ronald ama tanto ricordare.
A noi sì. Noi vogliamo che questo imbastardimento culturale, che fa cosi gola alle “elites” economiche mondiali, abbia termine. Vogliamo la differenza. Perché per noi differenza significa che in ogni luogo si può assaggiare qualcosa di diverso, che ha anche, oltre al valore nutrizionale, qualcosa del popolo che ha creato quei sapori, che ha inventato quegli abbinamenti di gusto.
Qualcosa della sua storia e della sua cultura.
Lo spettacolo che a qualche anima bella può sembrare edificante di gente di tutte le razze che mangiano lo stesso panino americano, nello stesso ristorante, per noi è abominevole. Cosi come, sotto altri aspetti il multiculturalismo e la commistione tra ceppi e etnie (tanto decantato ultimamente e assurto al rango di “obbligo morale” se non si vuole essere fatti oggetto dei peggiori epiteti) è qualcosa che offende tutti, di qualunque gruppo si faccia parte.
Lungi dall’ essere “accettazione” dell’altro da sé, è semplicemente livellamento, cancellazione delle differenze, annegamento delle identità. Per nostro conto nulla di razzista. Anzi, un vero rispetto per i popoli e le culture, un amore per la differenza e le radici che i “padroni del vapore” vogliono azzerare, sostituendovi una pletora di livellati consumatori senza origine e senza tradizioni, buoni solo a portare altro denaro -e altro sangue- ai loro squallidi “multiculturali”

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